lunedì 16 ottobre 2017

LA RICERCA INTERIORE


ph: Pixabay.com

Il cammino della conoscenza spirituale mira, nel complesso delle sue molteplici esplicazioni, alla piena realizzazione della coscienza di Sé.
E’ anche vero che spesso, specie quando si è neofiti e coraggiosi esploratori, si possa incorrere nell’attaccamento alla ricerca in se stessa, a tal punto da provare frustrazione quando, domanda dopo domanda, si entra nel circolo vizioso di desiderare di ottenere a tutti i costi la verità ultima.
Allora ci si appella ai dogmi che sono spesso presi come postulati assoluti.
E’ naturale porsi domande sulla natura di questo misterioso universo di cui siamo parte, sul significato dell’esistenza, sull’inarrestabile lotta fra bene e male, sul dualismo che oppone la sofferenza alla gioia, sull'importanza dell'esperienza spirituale, sulla speranza della vita dopo la morte.
Bisogna ricordarsi, però, che come la meditazione è un bellissimo strumento per portare la calma nella mente, altrettanto può risultare inutile se lo riteniamo il fine della nostra esperienza: in realtà ogni dottrina o insegnamento sono soltanto mezzi tecnici per aiutarci sulla strada della liberazione.
In tale senso vi è un Sutra buddista in cui si specifica che per destarsi alla verità, quale essa sia, bisogna staccarsi dagli stessi insegnamenti: al momento in cui hai raggiunto un certo grado di coscienza superiore, è fondamentale liberarsi da ciò che ti ha permesso di attraversare le valli dell’ombra per proseguire oltre.

Così dice:
La zattera

“Come zattera, o monaci, voglio mostrarvi il Dhamma, atto a salvarsi, non a tenersi. Questo ascoltate e fate bene attenzione al mio discorso”. “Sì, o Signore!” replicarono allora attenti quei monaci al Sublime. Il Sublime parlò così: “Così come quasi, o monaci, se un uomo in cammino pervenisse ad una grande distesa d’acqua, la riva di qua piena di pericoli e paure, la riva di là sicura e senza pericoli, e nessuna barca vi fosse pel traghetto, nessun ponte per passare all’altra riva. Allora quest’uomo pensasse: ‘Questa è una ben grande distesa d’acqua, questa riva piena di pericoli e paure, l’altra riva sicura e senza pericoli, e nessuna barca v’é qui pel traghetto, nessun ponte per passare all’altra riva. Dunque, se io ora raccogliessi canne e tronchi, fascine e foglie, costruissi una zattera e mediante questa zattera, lavorando con mani e piedi, traghettassi in salvo all’altra riva?’ E l’uomo, o monaci, raccogliesse ora canne e tronchi, fascine e foglie, costruisse una zattera e mediante questa zattera, lavorando con mani e piedi, traghettasse in salvo all’altra riva. E, salvato, traghettato, pensasse egli così: ‘ Carissima mi è veramente questa zattera, mediante questa zattera, lavorando con mani e piedi, io sono giunto salvo all’altra riva. Dunque, se io ora mi ponessi sul capo o mi caricassi sulle spalle questa zattera e me ne andassi dove voglio?’ Che pensate voi di ciò, monaci? Quest’uomo con tale agire tratterebbe forse convenientemente la zattera?”.

“Certamente no, o Signore!”.

“Che dovrebbe dunque fare quell’uomo, voi monaci, per trattare convenientemente la zattera? Se quest’uomo, voi monaci, salvato, tragittato, riflettesse così: ‘Carissima mi è veramente questa zattera, mediante questa zattera, lavorando con mani e piedi, io sono giunto sano all’altra riva. Dunque, se io ora posassi questa zattera sulla riva o la gettassi nell’onda e me ne andassi dove voglio?’ Con tale agire veramente, o monaci, quest’uomo tratterebbe convenientemente la zattera. Or così anche appunto, o monaci, io ho esposto il Dhamma come zattera, atto a salvarsi, non a tenersi. Voi, che intendete bene il paragone della zattera, dovete lasciar andare anche il giusto, per non dire dell’ingiusto“.
Alagaddupama sutta, MN XXII

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